Privacy Policy Tempi morti di Eleonora Danco - Recensione - The Serendipity Periodical

Tempi morti di Eleonora Danco – Recensione

Tempi Morti ci mostra un’umanità agli estremi che tenta di sopravvivere

Tempi Morti è un volume edito Giulio Perrone che ripercorre due decenni e mezzo della carriera artistica di Eleonora Danco, dal 1996 al 2017. Testi, monologhi, poesie, racconti, dove Danco ci mostra un’umanità agli estremi in cui tanti si potranno riconoscere. Considerata una delle artiste teatrali più importanti della scena nazionale, Eleonora Danco si attesta come regista, drammaturga, attrice, performer. La sua scrittura per immagini, compulsiva, frastagliata, prende ispirazione dalle opere di Bacon, Cézanne e Rauschenberg. 

Tempi che sono morti

In questi testi che testimoniano la singolare carriera di Danco (dal 1996 con Ragazze al Muro a dEVERSIVO del 2017) c’è una variabile costante: un’ostinata arrendevolezza alla vita. Le scene descritte ci narrano una quotidianità quasi banale: prendere la metro, farsi una doccia, aspettare l’autobus. Eppure è proprio di questi momenti che la Danco ci vuole parlare, in cui i suoi personaggi si mostrano come arresi alla vita, svuotati, intenti a gridare in una partita in cui non hanno intenzione di prendere parte. Semplicemente stanno. Come ha scritto Christian Raimo nella prefazione dell’edizione Giulio Perrone “I tempi non sono feroci, ma morti”.

Corpi in un eterno loop

Leggiamo le indicazioni di scena di Tempi Morti, il testo che dà il titolo alla raccolta e che è stato scritto nel 1999 in occasione del bando del Teatro di Roma su spiritualità e Giubileo. 

Ambientazione. Una stazione della metropolitana. Ombre in lontananza.  Come in un quadro le immagini sono in movimento e sono morte, sono espressive e sono lontane. Figure umane attendono un treno. La scena si popola, si svuota, si astrae, si riempie. […]

La scena come un cantiere in allestimento, con quinte, cavi e luci a vista, dove si incontrano, confondono degli esseri umani, con le loro esperienze, distanze, mancanze, impossibili vitalità. 

La scena si popola e si svuota, orde di persone si scontrano, si incrociano, si passano vicino senza neanche guardarsi. Non importa chi c’è, ciò che si nota è soltanto questo continuo fluire: un movimento incessante che non ha soggetti ma solo corpi. In questa specie di età del loop, emerge chiaramente l’invalicabile distanza che c’è tra questi sconosciuti. Sconosciuti sono Franco e Pietro, due anziani che trascorrono il loro viaggio in metro a fantasticare sconcezze su una ragazzina perché “er tempo nun passa mai”(p.58); sconosciuti sono Donna e Uomo, che vorrebbero fare l’amore in metro e allo stesso tempo scappare l’uno dall’altro ma alla fine rimangono fermi e soli perché “…mi domando cosa ci sto a fare al mondo, non ho il coraggio di sparire, sono troppo pigro” (p.63).

Nessuna resistenza

Non c’è resistenza in questi corpi, ma solo permanenza. L’abbandono a un’esistenza che non può che andare così come va. Ecco perché i testi della Danco parlano ad ognuno di noi, in fondo ad essere messo in scena è questo tentativo di sopravvivenza che arranchiamo ogni giorno, che a volte ci sorprende stanchi, stufi, soli

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