Privacy Policy Nichilismo, evasione mistica e anarchia nella Cina del III secolo - The Serendipity Periodical
Elogio dell'anarchia, Ortica editrice

Nichilismo, evasione mistica e anarchia nella Cina del III secolo

Elogio dell’anarchia di due eccentrici cinesi del III secolo (Ortica editrice, 2019)

L’effervescenza culturale e filosofica della Cina dei primi secoli della nostra era passa spesso inosservata presso gli intellettuali occidentali. In molti rimangono dell’idea che la Cina abbia immaginato politicamente un’unica forma di governo durante quegli anni, e che il dibattito filosofico, così come lo abbiamo imparato dai Greci, non vi avesse avuto luogo. Elogio dell’anarchia di due eccentrici cinesi del III secolo, uscito con Ortica editrice (2019), contraddice entrambe queste opinioni, offrendo al pubblico non sinologo delle testimonianze vivide del dibattito filosofico di quegli anni. Ne viene fuori uno scenario complesso, articolato, fatto di idee che oscillano ‘tra rivolta nichilista ed evasione mistica’, per citare un importante articolo sul tema del 1948 firmato Etienne Balazs.

Il crollo della dinastia Han e la fine dell’età classica

Siamo nel III secolo, il crollo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) determina la fine dell’età classica cinese dopo quattro secoli di governo. Durante il periodo successivo, denominato dei Tre Regni, l’impero fu diviso in tre aree di governo che divennero altrettanti Stati indipendenti in continua lotta per il potere e la supremazia. In tale contesto di transizione e frammentazione dell’Impero, la ricchezza del pensiero e della riflessione politica cinese fiorisce e raggiunge una profondità speculativa considerevole, con tonalità marcatamente anarchicheggianti e sovversive.

L’elogio dell’anarchia di Bao Jingyan e Xi Kang

Un certo nichilismo si impossessa della società nelle sue forme più radicali, e una delle principali manifestazioni è rappresentata proprio dall’eccentrica figura di Bao Jingyan, di cui si sa ben poco, se non alcuni frammenti del suo pensiero sovversivo. L’altro eccentrico Xi Kang, invece, sembra averci lasciato più tracce: pensatore e poeta, membro dei Sette Saggi della foresta di bambù e impertinente bevitore. Venne denunciato come elemento asociale e pericoloso per l’ordine pubblico, successivamente arrestato, incarcerato e condannato a morte. Entrambi sono rappresentanti di un pensiero sabotatore, e si fanno interpreti attivi di quello che potremmo definire un taoismo della rivolta, una mistica anarchica che si tinge di venature che richiamano spesso il mito del bon sauvage di Rousseau, in cui il radicalismo di pensiero arriva a idealizzare il primitivo come unico ed autentico essere che l’attività civilizzatrice del potere corrompe e mortifica. Anarchia come primitivismo integrale e assenza di ogni autorità, negazione di ogni legittimità al controllo statale e al sistema. Queste figure sono eredi diretti di una lunga tradizione di vagabondi dello spirito, di anacoreti e ribelli che sovvertivano lo Stato a partire dalla loro ‘forma di vita’, e cioè adottando comportamenti spiccatamente antisociali; Bao Jingyan e Xi Kang si portano su posizioni intransigenti ed estremiste durante i dibattiti con altri autori, soprattutto contro i difensori dell’azione civilizzatrice della politica che, nel contesto culturale cinese, si muniscono di toni mistici e cosmogonici. I loro avversari di disputa, i difensori delle istituzioni politiche, quando difendono lo Stato non lo fanno mai, infatti, intendendolo una conquista dell’uomo sulla propria animalità, ma come prolungamento dell’azione e del movimento cosmico, come se in qualche modo la Natura si manifestasse nel sociale attraverso le istituzioni stesse. L’ordine sociale è tale perché è un riflesso dell’ordine naturale. Le regole, i riti, le leggi e di sovrani e monarchi, nel loro immaginario, sposano il ritmo delle stagioni, del tempo e delle lune, e la Natura stessa risponderà a questa armonia regalando e prodigando i suoi doni al popolo.

La polemica e il contradditorio come metodo filosofico

Uno degli aspetti più interessanti da notare è la modalità con cui i temi vengono trattati all’interno delle testimonianze. Nessuna trattazione sistemica o aristotelica, ma una concezione più fenomenologica potremmo dire: la speculazione filosofica viene sviluppata attraverso la ‘polemica’, forma privilegiata dell’esposizione del pensiero in Cina. Una foma espositiva che si sovrappone in parte al dialogo platonico e alla maieutica, ma non completamente. Ognuno espone la propria teoria e poi ascolta in silenzio il contraddittorio del proprio avversario, in un susseguirsi di esposizioni che comportano la progressiva radicalizzazione della propria tesi. E così, questo peculiare gusto cinese per il dibattito diventa un genere letterario che sostituisce di fatto il saggio intenso in senso classico. Del resto, è la tradizione orientale stessa che da sempre ha privilegiato l’aneddotica, le scene di un dialogo o la tipica domanda del discepolo al maestro. Non c’è mai l’astrazione pura, tipica della modalità speculativa occidentale, né oggettivazione di pensiero, ma questo viene sempre ad essere incarnato dal proprio portavoce, con il quale diventa un tutt’uno. Spesso è lo stesso autore a prendere le parti dell’avversario, con un altro nome, tentando di dissuadere sé stesso e toccando con le nocche lì dove il muro eretto dalla sua trattazione potrebbe avere dei vuoti. I personaggi diventano avversari immaginari e fittizi che un estimatore come Borges avrebbe certamente apprezzato. Figurarsi l’antitesi di una ipotetica tesi rappresenta un modo per ‘costringere’ il proprio pensiero a svilupparsi, ad affinarsi e chiarificarsi progressivamente – o meglio a radicalizzarsi. Si genera un triangolo ermeneutico reciproco tra la tesi, l’antitesi e anche il lettore del saggio che grazie al contraddittorio ha la possibilità di giudicare tutta l’oggettività delle tesi proposte con le formulazioni degli stessi autori, senza mediazioni e in modo diretto.

La voce del Padrone e la voce del Ribelle

In questo modo, grazie al contraddittorio, si evince come esista una parola del Potere, dello Stato e del Padrone, e una parola della rivolta o della sovversione. E la parola anarchica per questi eccentrici libertari del III secolo è una parola che punta a ristabilire l’originarietà dell’essere umano, cioè in grado di far uscire il soggetto umano dal circolo vizioso e sterile di un mondo sociale, fittiziamente costruito e considerato come mescolanza di fini e utili individuali. Il mondo sociale è fatto di oggetti esterni, desiderabili, alienati. Oggetti che provocano bramosia e desiderio, e quindi alterità. L’Io si frattura tra un esterno e un interno, e così l’essere umano si aliena da sé stesso e dall’universo. E per ottenere tali oggetti bisogna lavorare, perché lavorando trasformiamo il mondo per ottenere i nostri scopi: ovvero mercificandolo. Ma tutto ciò ha un enorme prezzo, perché il mondo, una volta trasformato, non può se non trasformare anche noi stessi in soggetti funzionali alla produzione e al consumo. Uscirne è una questione mistica, un’ascesi e un rifiuto di ogni istituzione esterna per approdare in un territorio che si trova al di là dell’intelletto e dell’intelligenza emotiva. Questi radicali del III secolo elogiano l’anarchia del caos primigenio, il regno dell’indistinzione confusa, dell’anomia, ovvero dell’assenza di un nomos. Un inselvatichimento che è anche un ritorno all’animalità, per ripristinare uno spirito sopito un tempo incapace di piegarsi ai protocolli dei funzionari del Potere.

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