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Reminiscenze latenti

“Dottore, sono io… mi vedo; sono Flavio De Pasquale e credo che la particella davanti al nome abbia la sua importanza. Certo, debbo dire che sono confuso, nauseato da mille ricordi, più simili a echi; da interferenze di un vissuto lontano. Comunque mi vedo, sono io. Sono il Commendator De Pasquale, proprietario di un’azienda alimentare con più di un migliaio di operai, padre di famiglia di due figli, un maschio, Giovanni, e una femmina, Noemi; residente in Brianza in una villa a due piani con piscina e veranda, il prato all’inglese, una villa nascosta da siepi di oleandri, ben curata. La mia casa è bianca e la vedo stagliarsi contro un cielo confuso di nubi, in una giornata in cui il sole trapela filtrato da un vasto velo grigio”.

“Vede altro? Voglio dire, se ricorda altre particolarità, altri aspetti. Allo scopo dell’indagine sarebbero importanti”.

“Sì. Mi affiorano alla mente i miei operai nei momenti di lotta, di ribellione sindacale. La mia opposizione ferrea, irremovibile sui salari e sulle ore di straordinario. Certo, credo che loro protestino allo scopo di avere un ritocco al rialzo dei loro salari. Ma vede, dottore, il problema non credo sia il salario, le ore di lavoro e quelle di riposo. Nella mia confusione di intenti, di ragionamenti e di espressione diplomatica, se vogliamo dirla tutta, credo che il problema reale, che loro non riescono ad esprimere nei miei confronti, sia l’esclusione dalla storia; da quella civica intendo, collettiva. Loro detestano a livello inconscio il loro ruolo di subordinati al commendatore e ai suoi voleri, al punto di capire ma di non poter esprimere il dato portante che loro sono esclusi dalla storia per una questione di ruoli, di potere. Il potere d’altronde determina il gioco delle parti e l’offesa più grossa che si possa fare a un uomo è depredarlo della storia civile, lasciandolo nudo; in balia della storia biografica, individuale. Infatti, credo che frequentino i circoli a uno scopo preciso – non vorrei mai passare le domeniche come loro – al fine di combinare un’unione di progetti che li renda parte della storia. Ma – ripeto – sono solo delle pedine, dei subordinati, degli esistenti biologici ma privi di coscienza. La loro coscienza è da me sviluppata, controllata, affidata alla meccanicità del lavoro quotidiano. Sono io che gestisco il loro tempo, la loro storia personale. Addirittura i loro amori apparentemente dettati dal contesto della fabbrica”.

“E quindi? Cosa vuole affermare? Si spieghi meglio”.

“Voglio dire che io sono il capocomico, il loro capocomico, e che la vita di ciascuno viene elargita secondo il mio potere”.

“Si rilassi. E cerchi di essere più chiaro, altrimenti non possiamo giungere ad alcuna conclusione. Noi dobbiamo riuscire a comprendere il suo malessere, le sue vertigini; la causa del tormento che la opprime da tempo. Causa, probabilmente, di altra natura, lontana dalle mura aziendali…”

“Lontana e non, dottore. Perché, vede, il sesso – e credo sia la cosa principale di queste trame occulte, il protagonista del mio dramma – è strettamente in simbiosi con il potere, con il ruolo che ho sia nei loro confronti, sia in quelli della mia famiglia e della società. Sono un semidio, se vogliamo dircela tutta, e nello scavare il tempo (simbolicamente, di questo ne sono consapevole) trovo che abbia istintivamente, per incoscienza, abusato delle mie facoltà diplomatiche a scopi egoistici. D’altronde le segretarie me le sono scopate tutte, dico nel tempo; ogni volta che le chiamavo, ora per un ordine, ora per una semplice firma. Le costringevo minacciandole a parole di farmi pompini, sotto la mia scrivania ingombra di pensieri e carte. Anzi, a dire il vero, per piacere ai loro occhi, per non avvertire quel senso di repulsione nel momento dell’atto, vestivo con l’abito migliore, generalmente blu o grigio fumo, con tanto di gemelli ai polsi della camicia e di panciotto ben abbottonato. Il gioco era da ragazzi: era sufficiente che loro mi sbottonassero la cerniera e mi cercassero tra le mie gambe. Il sopruso era fatto. In quegli istanti non solo provavo piacere, non solo esercitavo un abuso di potere, ma davo sfogo al narcisismo più estremo, al punto di, finito l’atto, abbandonarmi a fumare una sigaretta di marca popolare. D’altronde allora avevo poco più di quarant’anni, ero nel vigore della mia vita. E credo, se non erro, anche se resta un problema iconografico, anzi ne sono convinto, che anche Gesù Cristo fosse un fumatore accanito come me. Un fumatore a cui piaceva darsi al vizio dopo il coito con una bella signora”.

“Ma scusi se la interrompo: Cristo cosa c’entra in tutto questo? Non faccia il blasfemo, non ce n’è bisogno”.

“E invece sì. Vede Cristo è uomo ma maestro di vita. Quindi, deduco abbia esercitato del potere sulla massa, sui discepoli stessi, in misura più circoscritta sugli apostoli, i quattro maschietti che su di lui hanno scritto. Ed essendo un leader, un capocomico (mi sono molto divertito in vita mia, al punto di credere che la vita sia un sogno, una commedia), inevitabilmente era l’incarnazione di un imprenditore del nostro tempo. Un’incarnazione simbolica, in parte latente, ma una incarnazione. Figura, perciò, dedita al sopruso di potere, a qualche bicchiere di troppo, al vizio del sesso e del fumo. Ma ricordo altro. Quindi, Cristo a parte – detesto le iconografie più antiche, le rappresentazioni del pischello tutto dire – credo che la storia del mio tormento venga da lontano. Sia più escatologica (mi perdoni se uso un certo vocabolario in base al colore delle parole).

Gli anni del campeggio libero, i giorni della partenza per le ferie estive, la chiusura della fabbrica, mi rammentano un esplodere di vigore, un sopruso di ormoni che cercavo di placare non con mia moglie, ma con un’altra presenza femminile, che potrebbe essere stata mia figlia Noemi. E non me ne stupirei. Più volte, nell’età della sua adolescenza, ho cercato di masturbarmi in presenza di mio figlio, immaginandomelo in un frangente di concupiscenza con una ragazza contro un muro, in piedi. Mi masturbavo per i colori dei suoi occhi, per i tratti somatici – gentili come quelli degli adolescenti – e pensavo al suo pene eretto ma sottile, molto più piccolo del mio che sono il padre, l’imprenditore cazzuto e prepotente. In lui, dottore, vedevo una parte di me; il potenziale figlio a cui avrei un domani lasciato l’impresa, la villa, il parco e tutto il resto. Ma allora era solo mio figlio, e dovevo piegarlo al mio dovere. E un giorno gli chiesi apertamente se avesse avuto piacere a masturbarsi con me. E si rifiutò. Queste cose mia moglie non le ha mai sapute. Mai le saprà. Comunque, la storia è ancora tutta da svolgersi, e la rivivo, di momento in momento, come fosse un nastro magnetico che la bobina riavvolge”.

“Mi diceva di sua figlia, no? Allora continui, non tema nessuna paura, nessun senso di colpa. Vada avanti”.

“I ricordi, le reminiscenze a questo punto si fanno vaghe. Vaghe e si perdono in dissolvenze come in un film, di colore verde chiaro. Il verde, sì il colore dell’incerato del nostro carrello tenda in campeggio al mare, forse in una vacanza con degli amici corsi. Sta di fatto che io debbo averci provato con mia figlia, dapprima allungando la mano sulla coscia nuda, accarezzandola dolcemente e poi sempre più violento sino ad arrivare al pube. Nell’aria verde di un giorno d’estate, supini com’eravamo nell’ora più calda. Carezze, che continuarono in apprezzamenti vari, tutti di natura pornografica, il cui eros si perdeva tra le pieghe del tessuto del suo prendisole beige a fiori rosa. Prendisole che feci indossare a Loana, la mia seconda ragioniera d’ufficio, un giorno che la portai (con la promessa di alzarle lo stipendio da impiegata) in un albergo a ore della provincia di Ascoli Piceno, durante un fine settimana. Ma con mia figlia forse non c’è stato coito, non credo almeno. Ricordo che la costringevo a baciarle i seni, i ginocchi, gli occhi, a morderle le dite dei piedi e poi delle mani, ma non sono andato più in là; non mi sono spinto oltre”.

“Ne è sicuro? Ricordi, ricordi… ho il sospetto che lei… si nasconda, che abbia voluto dimenticare qualcosa allo scopo di non dover soffrire”.

“Possibile? Certo, sarà. Io ricordo le sigarette fumate, con il bocchino, di marca oro (quelle della domenica), delle carezze, delle pomiciate, della mano che violentemente le misi sulla bocca per non farla gridare. Ecco: era l’agosto dell’ottantacinque. Adesso ricordo. Le cose in fabbrica andavano bene, c’era lavoro, girava la moneta, e spesso ero invitato ai festini che i politici influenti di Roma facevano nelle ville nei dintorni di casa mia, oppure nella campagna laziale, nella valle del Tevere (una delle valli più belle d’Italia che conosca) o sulle rive dell’Aniene. Nelle loro ville lussuose, perse tra i fori romani, tra l’erba alta dei prati incolti, in quelle giornate di sole i cui raggi sembravano di miele. Feste in cui si cenava con caviale, si ballava sui parchi allestiti a giardino, si facevano incontri sessuali. Incontri che il più delle volte progettavo mediante vacanze turistiche in certi paesi dell’est o del Brasile allo scopo di alleggerire il peso dei miei genitali. Lunghi periodi passavo all’estero in cerca di troiette da strapazzo, e forse qualcuna me la sono portata in ufficio, in Italia, come segretaria, come donna di servizio. Anche se, a ricordare – e il fatto sta nel voler ricordare – volevo aprire una azienda anche in Brasile a scopo puramente sessuale.

Scopo che non ebbi motivo di realizzare. Ma con mia figlia Noemi, non c’è stato niente. Forse solo una pomiciata. Però, a ricordare, a sforzarmi, seguendo una logica metafisica, astratta, se vogliamo leggerla tramite la lente sociologica, una sola volta l’ho penetrata, ed è rimasta incinta. Sì, una sola volta. Volevo provare piacere non tanto nel coito (il sesso è un incontro, solo un incontro tra parti), quanto nel farle provare l’esclusione dalla storia civile, farle provare la violenza dell’umiliazione, metterla definitivamente al cospetto della sua sola identità biografica. E ci riuscii, dissimulando con gli amici, con mia moglie, campeggiando per giorni in quel carrello tenda che trainai dalla Brianza sino al mare con la mia Mercedes berlina dai vetri oscurati. Giorni in cui feci finta di niente, sì insomma cercai di non dare a vedere niente di quello che successe tra me e lei, nel vano della camera dentro la tenda”.

“Rimase incinta allora. Ecco, vede che siamo arrivati alla causa. Lei questo lo ha cercato di dimenticare per via dei sensi di colpa. Ma non è tutto qui. Il bambino, il feto, che fine ha fatto?”

“Abortito in Svizzera. In una clinica di alto livello dove portai Noemi dicendo a mia moglie Antonia che partivamo per qualche giorno di relax. Nell’occasione affittai una villa in un paesino del cantone francese, vicino alla clinica e in tre giorni tutto finì. L’aborto, per fortuna, non ebbe complicazioni di sorta, e Noemi lo superò senza cenni di turbamento. D’altronde è una ragazza forte, e, si sa, il sangue è sangue. Volendo o non volendo è figlia di un imprenditore, di un uomo di potere; l’erede donna di un impero.

Adesso comunque tutto è chiaro. Ricordo con distanza, lontano dal pathos iniziale, da quel tremore febbricitante che mi impediva di ricordare il tutto. Le feste in casa di politici influenti nella campagna romana, nelle notti di novilunio, di luna piena in cui la bellezza di quelle valli trapelava da ogni dove, dai prati infiniti, da dietro i seni molli dei poggi coltivati a vite ed olivi. Ricordo tutto, le domeniche a casa, i momenti in giardino, il ritrovo con i suoceri contenti della mia escalation al potere e alla ricchezza. Reminiscenze che mi vedono innamorato di me stesso, al punto di farmi i miei figli, le mie dipendenti in quanto riflesso di ciò che io sono. È come se, alla fine dei conti, mi guardassi allo specchio. È la fine. Dottore, credo che adesso sappia la verità, e sono e mi sento leggero come una farfalla che vola lieta nei prati lambita da un sole mite. Mi sento un altro, non più in preda a certe febbri del demone che crebbe in me. Sento di essere un altro uomo, senza più potere, senza la coscienza della storia civile (fatta sempre dai vincitori e mai dai vinti), un uomo, solo un uomo consapevole della propria biografia. Adesso, solo adesso, che lei mi ha dato l’opportunità di guarire, di uscire dall’ottica dell’odio e del potere, capisco cosa si prova ad essere emarginato, vinto, abbattuto; subordinato ad una forza ignota e imperdonabile, se non addirittura criminale per il semplice fatto di inscenare un ruolo di potere”.

“Quindi adesso si sente libero da ogni peso?”

“Certo. E per dimostrarlo a me stesso, ai miei figli, devo rimettere alla loro coscienza, alla loro intelligenza, la stima che hanno o potrebbero avere nei miei confronti. Insomma, debbo rivedere un po’ di cose, rimettermi in discussione. E non solo con loro, con mia moglie, ma con i miei dipendenti, i miei operai. Adesso che so, solo adesso posso prendere coscienza del mondo, della vita. Vivere il mio ruolo il più serenamente possibile, senza tanti preamboli di sorta, senza l’ausilio di interrogativi strategici o di mercato.

Quasi quasi, avendo rivissuto il sogno perverso, l’incubo di tanti anni, posso ridimensionare il mio ruolo di commendatore, di uomo di strapotere, di apogeo e di fortunato. Posso tornare a essere un uomo senza alibi e senza moventi. In piena libertà, in quella libertà che non ho mai conosciuto e che credevo (fortemente convinto com’ero) si concentrasse nel vigore e nella potenza. Adesso posso fumare, senza tanti problemi, senza preconcetti (il pregiudizio è sempre e solo un’azione mancata), senza fingermi un Cristo per esercitare il mio ruolo nei vari contesti della mia vita. Adesso, dimenticandomi, o meglio accettando, senza rassegnazione alcuna, il criminale che ero.

Racconto di

Iuri Lombardi

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