Privacy Policy La Vita Vera come volontà collettiva: conversazione con Adeline Dieudonné - The Serendipity Periodical

La Vita Vera come volontà collettiva: conversazione con Adeline Dieudonné

L’adolescenza, la lotta agli stereotipi di genere, la violenza sulle donne e la debolezza dell’essere umano, ma anche la possibilità di reinventare il sistema attuale 

Pubblicato in Francia dalla casa editrice indipendente L’Iconoclaste, La Vita Vera continua a fare incetta di premi: Prix du roman FNAC, Prix Filigranes, Prix Rossel, Prix Première Plume du Furet du Nord, e ancora, Prix Renaudot des Lycéens, Prix Goncourt – Choix de la Belgique et Prix Goncourt – Choix de l’Italie. Questi ultimi tre sono stati assegnati da un campione di giovani lettori, e, se è vero che i premi letterari non sono necessariamente garanti di qualità o di autenticità, è altrettanto vero che un pubblico che esprime il suo gradimento è un pubblico che esprime i suoi bisogni. La scelta di questa giuria popolare dimostra che gli adolescenti di oggi hanno più che mai bisogno di riflettere sulle questioni che l’autrice affronta in questo romanzo così ben scritto. Lucida, spietata, sincera, Adeline Dieudonné racconta la storia di una ragazzina alle prese con gli stravolgimenti della sua età, con la scoperta del suo corpo e della sua identità. La Vita Vera è un libro scritto da una donna per le donne, e tutte le ragazze dovrebbero leggerlo. Negli scaffali delle librerie italiane lo trovate nella traduzione di Margherita Belardetti, edito da Solferino.

Non è un caso che La Vita Vera abbia ottenuto tanto successo proprio tra i giovani. In fondo si tratta di un romanzo di formazione, in cui assistiamo all’evoluzione di una ragazzina che si confronta con la vita e con il mondo degli adulti. Quali sono, a suo avviso, le maggiori difficoltà con cui gli adolescenti, e soprattutto le ragazze, sono costretti a scontrarsi oggi? 

Sicuramente gli stereotipi di genere e la dominazione maschile di cui parlo nel libro, lo schema che la ragazzina cerca giustamente di non riprodurre, lo schema in cui si trova intrappolata sua madre, che poi consiste in quel rapporto predatorio che il padre intrattiene con lei e con il mondo delle donne in generale, come con quello degli animali. Credo che tutti noi, donne e uomini, siamo fortemente condizionati dai ruoli che ci sono stati assegnati, e, di conseguenza, penso che sia davvero difficile uscire da tali dinamiche. Questo, oggi, fa sicuramente parte delle difficoltà specifiche alle ragazze, al di là di quelle comuni ai ragazzini che pure vivono in un mondo che i loro genitori si sono impegnati a distruggere. Ho due figlie e devo ammettere che i problemi economici ed ecologici cui devono far fronte e, in modo particolare, la violenza del sistema patriarcale, sono tra le più grandi preoccupazioni che ho per loro.

A proposito dell’aspetto economico, viene da pensare al passaggio in cui la madre dice alla protagonista “guadagna qualche soldo e parti“.

Sì, l’indipendenza economica è una questione cruciale ed è sempre più difficile da conquistare dal momento che viviamo in un mondo in cui gli squilibri economici sono enormi, decisamente più importanti di quanto lo fossero per i nostri genitori, e ancor di più che per i nostri nonni. E l’impossibilità di raggiungere una completa autonomia economica fa parte delle difficoltà che impediscono alle donne maltrattate dai mariti, di prendere e andarsene. Andarsene, ma dove? Magari col rischio di finire in mezzo ad una strada? Al momento, le misure applicate a questo tipo di situazioni non sono incoraggianti.

Per quanto riguarda gli stereotipi di genere, la ragazzina protagonista del romanzo diventa simbolo di un’intera generazione che si oppone a quella precedente, a sua volta rappresentata da una madre “ameba”. È chiaro che viviamo in un’epoca di trasformazioni in cui, tuttavia, resta ancora molto da fare. Era sua intenzione affrontare la questione nel libro? Sotto quale spinta è nata La Vita Vera?

Quando scrivo non ho intenzioni. E di sicuro non avevo l’intenzione di lanciare un messaggio o di avere un impatto politico. L’unico impulso era quello di scrivere la storia di questi due bambini, avevo in mente soltanto l’incidente che avviene il primo anno e mi chiedevo come sarebbero cresciuti dopo quell’avvenimento. Ma il bello sta proprio nel vedere quanto le mie preoccupazioni emergano, trasudino dal racconto, mio malgrado. Credo che se questo tono politico fosse stato voluto, se avessi avuto sin dall’inizio l’obiettivo di affrontare certi temi, ne sarebbe venuto fuori qualcosa di goffo e moralista. È curioso, perché molto probabilmente le mie intenzioni, prendendo la parola autonomamente, si esprimono meglio di come avrei fatto io se avessi avuto una volontà forte.

E così è riuscita ad offrire al lettore una storia privata, ma che assume un valore universale?

Sì, ma senza la minima volontà di imporre la mia visione delle cose. Verso la fine del romanzo, il padre della protagonista perde il lavoro, proprio mentre la figlia, invece, costruisce il suo impero: si innamora, scopre di avere una passione ardente per le scienze, ottiene risultati scolastici eccellenti. Da quelle pagine emerge che questo padre così violento, in realtà, è schiacciato dalla paura. Percepisce la forza e la cultura della figlia come una minaccia, ha paura di non essere alla sua altezza, o meglio, è consapevole di non esserlo e non accetta la sua fragilità.

Crede che all’origine della violenza sulle donne, e in particolare della violenza coniugale, possa esserci in qualche modo il rifiuto di questa debolezza? 

Sicuramente, non avendo alcuna competenza in materia, non sono la persona più adatta ad esprimersi su questo argomento, ma credo che, molto probabilmente, una parte del problema risieda nel fatto che i ragazzi non vengono lasciati liberi di esprimere le loro emozioni. Sin da subito, diciamo ai bambini di non piangere e assegniamo alle bambine il lato più emozionale, più sensibile. Noi sì che abbiamo il diritto di piangere, noi abbiamo il diritto di esprimere le emozioni negative in altri modi e non soltanto arrabbiandoci, anzi… la rabbia è decisamente mal vista nelle donne. Per gli uomini è diverso, la collera è considerata persino un segno di virilità. È stato fatto un esperimento che lo dimostra in maniera lampante: a un gruppo di uomini e donne veniva mostrato il video di un bimbo di nove mesi che piangeva. Quando agli uomini veniva detto “è un maschietto, quale emozione esprime?” la risposta era sempre: “è arrabbiato, afferma la sua personalità, afferma la sua volontà”. Ad un campione di donne, invece, veniva detto che si trattava di una femminuccia, e quando veniva chiesto loro che cosa provasse, rispondevano “è triste, è turbata”. Quei neonati esprimevano la stessa identica reazione, eppure ad essa venivano attribuite radici diverse, a seconda del sesso. Ecco, credo che gli uomini effettivamente siano condizionati ad una gamma di emozioni molto più ridotta della nostra, e questo genera un’esplosione, nessuno insegna loro ad accettare le proprie emozioni e a gestirle.

Ma penso che questa sia solo una parte del problema, la violenza sulle donne e la violenza coniugale hanno anche molto a che fare con il potere.

Nel caso specifico de La Vita Vera, non c’è dubbio che il padre si senta minacciato e inetto di fronte a sua figlia. Inoltre, per me il papà incarna anche il liberalismo selvaggio, questa visione estremamente binaria secondo cui esistono vincenti e perdenti, lo dice proprio: “pesce grande mangia pesce piccolo“, o sei preda o sei predatore. E in un attimo diventa vittima di quello stesso sistema perché perde il lavoro, perché c’è una riconversione, perché la sua azienda viene acquistata da una multinazionale americana, per tutta una serie di ragioni del tutto indipendenti dalla sua volontà. È  curioso che proprio lui che si ritiene un vincente diventi improvvisamente un perdente, laddove la figlia costruisce un qualcosa che ha molte più sfumature.

In un’intervista ha dichiarato che tutto un versante del romanzo, quello che racconta la metamorfosi di Gilles, le è stato ispirato dalla lettura del romanzo Dobbiamo parlare di Kevin di Lionel Shriver, da cui è stato tratto il film di Lynne Ramsay. Ho anche letto che si parla già di un possibile adattamento cinematografico de La Vita Vera. Le scene che lei descrive sono vivide e hanno un forte impatto visivo. Inoltre, nel romanzo, lei cita vari film cult come Ritorno al futuro, Jurassick Park, ecc. In che modo le parole e le immagini interagiscono tra loro nella sua scrittura, nel suo processo creativo?

È una domanda molto interessante, perché in realtà non ho molte immagini in testa quando scrivo. Più che altro cerco di descrivere al meglio i cinque sensi, l’aspetto visivo è presente, ma hanno una grande importanza anche i suoni, gli odori, il tatto. Quello che cerco di fare è proprio di non restare solo sul piano visuale, ma in effetti moltissime persone dicono che il libro ha un forte carattere visivo e che effettivamente la trasposizione cinematografica sembra un’evoluzione naturale.

È buffo perché, per esempio, sono certa del fatto che sarei una pessima regista, mi manca completamente il senso dell’immagine.

Qualche settimana fa parlavo con Lize Spit, autrice di un romanzo intitolato Débâcle (*edito in italiano da E/O nel 2017, con il titolo Si scioglie) che in Francia ha avuto un successo fenomenale. Lei ha frequentato una scuola di cinema e mi diceva che approccia alla scrittura di un romanzo esattamente come farebbe con un film: pensa all’inquadratura, alla posizione della camera rispetto ai personaggi. Io mi affido completamente all’istinto, niente di tutto questo è calcolato. Direi che ho un rapporto strano con le immagini, perché al tempo stesso ogni volta che vado al cinema rimango a bocca aperta; ultimamente, vedendo un film di Almodovar, pensavo: “è meraviglioso… come fa a restituire immagini così straordinarie!”. Io non ho per niente quella sensibilità, per cui la mia scrittura è un processo del tutto immediato. Sono contenta però che i lettori ritrovino delle immagini nel mio romanzo.

In relazione a La Vita Vera si è parlato di “poetica dell’incubo”. Quali sono le scrittrici e gli scrittori, le registe e i registi ai quali si sente più vicina da un punto di vista stilistico ed estetico? 

Tra gli scrittori, sicuramente Stephen King, ci sono diversi riferimenti a lui ne La Vita Vera, è un autore che stimo moltissimo. Tra gli scrittori belgi contemporanei, Thomas Gunzig, che è anche un amico: in lui ho trovato questo aspetto eccentrico e cupo al tempo stesso, la libertà di non limitarsi ad un unico stile. Mi ha dimostrato che, nello stesso libro, si possono mettere della suspense e dell’ironia, ma anche della poesia… ed è una cosa che adoro. Poco fa lei stessa ha fatto cenno a Lionel Shriver, anche lei è un’autrice che mi piace moltissimo. Visto che adoro le descrizioni del mondo naturale leggo anche moltissime opere pubblicate dalla casa editrice Gallmeister, che pubblica traduzioni di autori americani in cui la natura è centrale. Tra i registi, ho già accennato ad Almodovar: lo adoro perché ha uno stile estremamente particolare, riconoscibilissimo, è unico nel suo genere. In relazione a La Vita Vera spesso hanno anche fatto riferimento a Guillermo del Toro, in particolare a Il Labirinto del Fauno, in cui pure c’è questo misto di racconto fantastico pieno di colori e al tempo stesso molto cupo. Mi piace tanto anche Iñarritu… e mi dà molto fastidio rendermi conto di aver citato soltanto uomini!

Ad un certo punto del romanzo, la protagonista fa riferimento al processo di apprendimento dicendo che la conoscenza ha bisogno di un corpo per potersi depositare, di un corpo che possa conservare la propria libertà di movimento, nello specifico. Mi piace molto questa visione. Cosa pensa del sistema scolastico attuale?

Di nuovo, non è stato intenzionale, ma ammetto di essere un po’ arrabbiata nei confronti del sistema scolastico belga (ma penso che in Italia e in Francia sia lo stesso). Trovo assurdo che si mettano dei bambini seduti tutto il giorno dietro dei banchi ad ascoltare qualcuno che parla. Credo che non sia affatto il modo migliore per stimolare le personalità e sviluppare i talenti di ciascuno. Oggi si sente parlare continuamente di “iperattività“, a mio parere è grave che vengano somministrate medicine a dei bambini che avrebbero solamente bisogno di muoversi. Sono convinta che se si permettesse loro di fare attività fisica, di svolgere più attività all’aperto, se li portassero nel bosco per mostrare loro le cose sul campo, anziché trasportare tutto in un’aula, quei bambini non avrebbero problemi. È ovvio che ci sono dei casi in cui le cure sono necessarie, ma credo che anche l’alimentazione giochi un ruolo importante in tutto questo… nessuno ci insegna a prenderci cura di noi stessi, ad alimentarci correttamente, a fare sport, e non ha alcun senso dal momento che siamo un tutt’uno, un organismo in cui tutto funziona insieme. Per funzionare bene, un cervello ha bisogno di essere ben ossigenato, ben alimentato, mentre mi pare che il sistema scolastico disconnetta i cervelli dai corpi. Per cui, non c’è dubbio che da parte mia ci sia una certa rabbia riguardo ciò, e che la cosa emerga in maniera evidente ne La Vita Vera.

È come se l’apprendimento implicasse un rapporto quasi erotico tra il corpo ed il sapere.

Sì, assolutamente. Magari oggi le cose stanno cambiando, anche se non ne sono così sicura, ma quando ero bambina la scuola non era un piacere, bensì un dovere. Il problema è che quello che deve essere fatto viene quasi automaticamente scisso dal piacere, mentre dovrebbe essere proprio il contrario, nell’apprendimento come nel lavoro. Il fatto che una cosa debba essere fatta non significa che non possa essere fatta con piacere, con gioia. È davvero necessario agire in qualche modo per reinventare questo sistema. Dobbiamo rimettere l’essere umano ed il benessere al centro di tutte le preoccupazioni, invece viviamo in un mondo in cui è la macchina economica a dominare. Attualmente siamo soltanto strumenti destinati a far girare una macchina che è al servizio di pochi, e che, invece, dovrebbe essere al servizio del benessere e della realizzazione di tutti, nessuno escluso.

La Vita Vera sarà tradotto in venti lingue. In Italia è stato pubblicato nella traduzione di Margherita Belardetti, sono curiosa di chiederle se avete avuto modo di lavorare insieme, se c’è stata una collaborazione.

No, affatto. Ha tradotto in completa autonomia e a quanto pare ha fatto un ottimo lavoro. I riscontri che sto ricevendo sono positivi, persone bilingue (che quindi riescono davvero a cogliere la differenza) dicono che sia tradotto molto bene. Ci sono anche traduttori che mi interpellano moltissimo e sono molto felice di collaborare con loro, ma lei ha lavorato da sola e ne sono altrettanto contenta. Per me, l’importante è che il risultato sia una buona traduzione, un buon libro. Non mi importa dei possibili “tradimenti“, basta che il libro sia bello e fruibile per il lettore.

Per concludere, le chiedo: cos’è “La Vita Vera“, è qualcosa di raggiungibile?

Non so cosa sia la “Vita Vera“, nel libro questa espressione ricorre in talmente tante accezioni… in realtà, in due significati completamente opposti tra loro. Se per “Vita Vera” intendiamo una vita migliore e idealizzata, non ho dubbi che si possa raggiungere, ma deve essere una volontà collettiva, sul piano individuale credo che sia quasi impossibile. Tutti abbiamo, nel nostro intimo, delle risorse che, come la ragazzina del romanzo, possono essere utilizzate, ed è bene farlo, ma credo anche che queste risorse spesso non bastino e ci sia bisogno dell’aiuto di persone esterne. Anche la protagonista finisce per trovare qualcuno che possa aiutarla perché, come nella maggior parte dei casi, purtroppo la sua sola volontà non sarebbe stata sufficiente. Ma sono convinta che collettivamente potremmo fare di meglio, e che la Vita Vera sia qualcosa di raggiungibile.

 

articolo di

Alessia Testa

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