Privacy Policy "Il pianto della scavatrice", Pier Paolo Pasolini – Analisi e commento
"Il pianto della scavatrice", Pier Paolo Pasolini – Analisi e commento

“Il pianto della scavatrice”, Pier Paolo Pasolini – Analisi e commento

Pasolini e il rapporto con la periferia romana ne Il pianto della scavatrice

Più di altri intellettuali italiani, Pier Paolo Pasolini ha saputo sondare il tessuto del Paese in pieno boom economico interpretandone i cambiamenti sociali e culturali. È a partire dagli anni ’50, infatti, che la poesia di Pasolini si scontra con la mutazione antropologica del tempo e passa dalla dimensione più intima iniziale, delle Poesie a Casarsa, a temi e toni più “impegnati”. Più di tutti è nella raccolta Le ceneri di Gramsci (1957) che l’io poetico esplode in versi pregni di risentimento, nei confronti di un’Italia che ormai sembra aver voltato le spalle alle proprie origini contadine, perdendo la propria umanità. È proprio dalla commistione del tema privato, della nostalgia e della malinconia, con quello civile e della critica alla modernizzazione, che nascono i versi più belli della raccolta. Un esempio lampante è il componimento: Il pianto della scavatrice.

Il pianto della scavatrice: una poesia semplice, ma fortemente connotata

Il pianto della scavatrice, pubblicata per la prima volta per la rivista il Contemporaneo nel 1957 e successivamente inserita tra i pometti che compongono Le ceneri di Gramsci, è sicuramente uno dei componimenti più rappresentativi del dissidio interiore del poeta. I versi, costituiti da terzine libere, sono legati tra loro da rime, assonanze e consonanze, mantenendo una forte coesione interna. I frequenti enjambement, tuttavia, dilatano i versi e conferiscono alla poesia un andamento narrativo e incalzante. La direzione scelta da Pasolini è quella di una poesia prosastica, semplice, ma fortemente connotata semanticamente. 

L’angoscia dell’amore consumato

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.

Nei primi versi si afferma l’importanza del presente come valore al quale la scrittura deve ancorarsi, poiché vivere nel rimpianto di un amore “consumato” non fa altro che provocare angoscia e impedisce all’anima di evolversi. Il senso di smarrimento del poeta è dovuto alla visione dei luoghi della Roma che un tempo amava e che hanno animato il suo slancio poetico, ma che ora non riesce più a riconoscere. Pasolini rammenta i primi tempi del suo esilio, dopo la fuga dal Friuli per l’accusa di atti osceni, rimpiangendo quei momenti di vita, che ora non posso più tornare. Così, sin dai primi versi, si stabilisce subito il sentimento di malinconia e nostalgia che sarà caratterizzante dell’intero componimento.

Pier Paolo Pasolini (credits: www.artsupp.com)

Tra afflizione dell’io poetico, degrado urbano e vivere istintuale

era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa

maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

Il componimento prosegue accompagnando Pasolini durante una sua passeggiata notturna nella periferia romana e, attraverso i suoi occhi, descrive il paesaggio squallido e desolato che lo circonda. Da subito il lettore è introdotto in un parallelo tra l’afflizione dell’io poetico, che vede spenta la propria ragione d’esistere, e il paesaggio urbano in degrado. Ma è nella visione dei giovani del proletariato romano che l’animo del poeta trova sollievo. La loro gioia di un vivere istintuale, innocente, inconsapevole, addolcisce la cupezza dei pensieri del poeta. È così che Pasolini rammenta la sua vita in una borgata “tutta calce e polverone”, lontana dalla città, come un microcosmo che rappresentava “la vita”.

Il pianto della scavatrice come grido umano di dolore

Ma tra gli scoppi testardi della
benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano,
subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore.

Ormai è sorto il sole e nella “vampa abbandonata de sole mattutino” – da notare la ripresa del tema della solitudine e dell’abbandono – si ode un rumore vibrante proveniente da un cantiere. Qui alcuni anziani operai, ritratti nell’umiltà della loro condizione, stanno lavorando faticosamente. È a questo punto che entrano in scena i veri protagonisti del poemetto: la benna e la scavatrice. Questi strumenti tecnici diventano il simbolo della trasformazione di una Roma che si sta ricostruendo e di un’Italia che si sta modernizzando. La periferia romana viene così svegliata dal lamento travolgente della scavatrice, che emette un grido “umano”, spezzando il silenzio innocente delle piazzette vuote. Insieme alla scavatrice sembra piangere l’animo del poeta, e con esso tutto il quartiere e l’intera città. È la fine di una civiltà preindustriale e l’inizio di un boom economico che non farà altro che portare maggiori disparità tra i ceti sociali.

Foto di una scavatrice dei primi anni ’60 (credits: www.impresedilinews.it)

Cambiamento, perdita e speranza.

Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante    

di ferirci: è qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell’altro fronte umano,

 il loro rosso straccio di speranza.

Ogni cambiamento, seppure per il meglio, comporta una perdita. La perdita in questione è l’innocenza incorrotta della periferia romana e del suo connubio con il mondo rurale. La luce del sole, che acceca e brucia, diventa simbolo del futuro. A questa visione pessimistica, però, si contrappone il coraggio di quegli intellettuali che, come Piero Gobetti, auspicano un miglioramento della società che riguardi soprattutto le classi emarginate. E la fede marxista degli operai, che muti innalzano “il loro rosso straccio di speranza”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto