Privacy Policy Industria Indipendente- Aprire il concetto di teatro - The Serendipity Periodical
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Industria Indipendente- Aprire il concetto di teatro

Short Theatre è una realtà teatrale che esiste all’interno del panorama romano da molti anni ormai. Quest’anno il The Serendipity Periodical ha avuto l’opportunità di sbirciare dietro le quinte ed intervistare alcuni degli artisti che hanno partecipato al festival.

Sabato 15 settembre

abbiamo incontrato Martina Ruggeri ed Erika Z. Galli, drammaturghe di Industria indipendente, collettivo che nasce dall’incontro delle due autrici. Il loro lavoro non si muove semplicemente in ambito teatrale anzi si configura come un continuo work in progress che mescola arti performative, musica, video. La prima opera del collettivo, “Crepacuore”, debutta nel 2011 vincendo vari festival a livello nazionale, da lì inizia la storia di Industria indipendente. Tra gli altri lavori del collettivo spicca “È tutta colpa delle madri” che nel 2014 viene messo in scena nel Teatro Valle occupato (patrocinato da Amnesty International). Nello stesso anno le due autrici vincono il premio Hystrio-scritture di Scena con il testo “Supernova”. Nel 2015 presentano “I ragazzi del cavalcavia” al festival Trasparenze di Modena vincitore del premio della critica al Dante Cappelletti. Sempre tra il 2014 e il 2015 entrano a far parte del collettivo di registe Le ragazze del porno, sono finaliste al festival al Premio Scenario con il lavoro sull’Iliade “Ho tanti affanni in petto, vengono selezionate per il progetto europeo Fabulamundi playwriting Europe e per Face à Face parole d’Italia per scene di Francia. Nel 2016 scrivono il testo “Lullaby” come risultato della loro permanenza all’istituto di cultura italiana a Parigi. Nel 2017 “Lucifer” debutta al festival Tramedautore (Piccolo Teatro, Milano) e Romaeuropa (Macro La Pelanda, Roma). Il loro ultimo lavoro “Dunno” è stato presentato proprio durante il festival Short Theatre, ce ne parlano le autrici.

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“Tutta colpa delle madri” in scena al Teatro Valle Occupato. Ph Valeria Tomasulo

Quest’anno avete partecipato a Short Theatre con due vostri progetti sia “Dunno” che un Dj set che avete preparato in collaborazione con Ubi Broki, volevo chiedervi come sono collegati con il tema Provocare Realtà che era il filo portante del festival, perché proprio queste due performance?

E- Per quanto riguarda il dj set, è un dj set a 3 mani con Ubi Broki che fa parte del gruppo Strasse di Milano. Strasse è un duo artistico che sentiamo molto vicino e con cui sarà bello “suonare” e condividere uno spazio, ovvero quello della Controra di Short Theatre. Il titolo della serata lo abbiamo scelto insieme: “Provocare realtà essential MissX”. Inoltre abbiamo accompagnato artisticamente due autori rumeni (Bogdan Georgescu e Mihaela Michailov) con cui facciamo parte del progetto Fabulamundi. Conoscerli e lavorare con loro è stato davvero prezioso, abbiamo discusso e condiviso pensieri, desideri, obiettivi. Tenendo ben presente che oltre ad essere due drammatughi, Mihaela e Bogdan sono due attivisti: producono importanti azioni e pensieri nel loro paese, in cui molte questioni sono estremamente problematiche.

M- Per noi Dunno è un modo di provocare realtà, è l’abbreviazione di “I don’t know” e come tale ha una natura formale e tematica aperta, riassemblando soggetti apparentemente differenti.  L’idea è di arrivare a condurre una mappatura di identità reali e immaginarie che non hanno un posto e una definizione precisa nello spazio pubblico. 

E-Nella presentazione di Dunno abbiamo scritto questo: “Ci siamo rivolte l’una verso l’altra esplicitamente usando i nostri corpi, i nostri desideri, le nostre archeologie esistenziali e sentimentali per tracciare una filologia fatta di legami reali e immaginari. Stiamo cercando un’alternativa poetica e politica per sopravvivere alla desertificazione (…).”

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Industria Indipendente insieme a Michaela Michaelov

Riguardo la ricerca drammaturgica, ho osservato che negli anni la vostra ricerca si è spostata verso un ambito più astratto, potremmo definirlo così?

E- Non proprio astratto. E non si è spostato, diciamo che stiamo tornando a un punto di partenza, a quello che inizialmente ci ha mosso. Stiamo tornando verso una ricerca artistica tout court, stiamo tornando al piacere della ricerca di forme e mezzi espressivi che possano corrisponderci.

M- Nel teatro ci siamo finite quasi subito e in una maniera diremmo accidentale. È stato un incidente perché abbiamo scritto un testo che volevamo dare ad un regista, avevamo vent’anni e non avevamo gli strumenti e forse neanche il desiderio di fare noi in prima persona uno spettacolo. Qualcosa però ci ha mosso e abbiamo detto “dai facciamolo.” Quel tentativo è stato eccitante e quell’eccitazione poi è come se ogni volta si riproducesse in una forma che fa parte di una pratica. Si muove su un binario molto semplice, nasce dalla relazione tra noi due che è molto forte e dura da molto tempo. Sono quindici anni che stiamo vicine e tramite la nostra relazione si formano degli oggetti, dei soggetti, delle cose altre da noi. Quando abbiamo una specie di scintilla che può essere un titolo, o un’immagine o un topic, siamo mosse da quella scintilla lì e in un certo modo poi questa determina anche la forma. Come a dire”non sono io che decido la lingua ma è l’argomento che poi determina il modo in cui poi si forma l’oggetto.”

Lavorare in coppia è certamente difficile, soprattutto per così tanto tempo. Quando nasce qualcosa come avviene il processo? Andate d’accordo oppure litigate?

E-(ride) Forse non li chiameremmo litigi, ma piuttosto esempi di relazione.

M- Ovviamente più la relazione è stratificata più hai possibilità di fare e far nascere un disaccordo e poi una negoziazione da cui nascono delle possibilità di azione.  

E- È una relazione basata sulla stima e ascolto reciproco costante, su una fiducia totale. Nel momento in cui “litighiamo” c’è comunque un rispetto per quello che facciamo e che coltiviamo. Ci fidiamo e ci affidiamo all’altra.

Prima Erika ha parlato di tornare un po’ alle radici, secondo voi mostrare anche il vostro processo creativo come avviene in “Dunno” è un po’ la naturale conseguenza di questo ritorno?

E- La scelta che abbiamo fatto, in questa occasione, è stata quella di rappresentare il nostro processo creativo tramite immagini, musica, parole scritte e togliendo gli attori dalla scena, filtrandoli tramite uno schermo.

M- Abbiamo lavorato con il video come con i testi, in maniera diretta. Ha molto a che fare con la nostra ricerca, che è anzitutto drammaturgica. Partiamo da dire questo: anche mettere su uno schermo nero una parola scritta è un segno.

Come vedete l’influenza della tecnologia all’interno del teatro? L’attore è da sempre considerato un elemento essenziale nella realtà teatrale, sottrarre l’attore è un gesto forte. Definireste quello che fate voi teatro oppure vi state spostando verso altre forme d’arte?

E- Per me il teatro non è solamente l’attore, il performer… è stupendo, meraviglioso, lo facciamo e lo riconosciamo, ma non è soltanto questo.

M- Il teatro nasce in un periodo storico in cui non c’erano mezzi altri di rappresentazione oltre quello figurativo, oggi ne esistono altri e sono la realtà e formano linguaggio, relazione e conoscenza.

E- Dopo Youtube, dopo la rapidità dell’immagine multimediale è difficile credere che il teatro possa escludere la tecnologia. È privo di senso portare avanti la battaglia del “preserviamo l’arte teatrale com’è”.

M- La questione dell’essere umano di fronte a un altro essere umano non finirà. Ma esiste anche la relazione dell’essere umano di fronte a un altro mediata da uno schermo. Diciamo che deve essere ripensata la questione del “cosa guardiamo”. Teatro è lo sguardo verso fuori, osservare qualcosa che hai di fronte, intorno e dentro. La possibilità che noi abbiamo non è soltanto il qui ed ora. Il nostro sguardo si posa quotidianamente moltissimo davanti uno schermo, è inimmaginabile pensare che questo tipo di sguardo non esista. Non dico che sia meglio o peggio, ma c’è.

Quello che fate è altamente sperimentale, a volte avete paura di non essere capite?

E- Dal nostro punto di vista non si pone questo problema o meglio si pone il desiderio di vivere insieme a chi sta dall’altra parte un’esperienza. Poi c’è sempre chi è davanti che solleva la questione dell’incomprensione o della non accettazione di quello che vede.

M-La cosa fondamentale per noi è cercare di alzare la posta in gioco. Quello che si fa quando si coinvolge il pubblico è sempre, al di là del tema che viene portato nella performance, un lavoro che ha a che fare con la politica nel senso della città e della comunità. E in un certo senso è un dovere rimanere in aderenza a una questione identitaria profonda tua/nostra verso l’altro.

E- Per esempio il nostro ultimo lavoro Lucifer ha avuto questo tipo di problema. C’è chi l’ha amato, c’è chi non l’ha capito, c’è chi se ne è andato… Noi però credevamo nell’importanza di dover mostrare quel percorso in quel modo, ad esempio non usando la lingua italiana. Lucifer è uno spettacolo in inglese e in altre lingue, c’è presenza di video e musica come elemento testuale, ogni elemento all’interno del lavoro è un elemento drammaturgico che suona insieme agli altri.

M- È una questione di dare e ricevere. Dipende quello che offri e quello che desideri. Quando partecipo come spettatrice a una performance, uno spettacolo, un film e sto lì e vivo un’esperienza di qualcosa che non riesco ad afferrare fino in fondo, che creano un vuoto che sento di dover riempire, verso cui muovere, vuol dire che quel lavoro sta funzionando dentro di me.

E-Forse proprio in questo senso c’è bisogno di provocare realtà e cioè di non addomesticare ma cercare di alzare la posta in gioco. Non sentirsi a casa, non sentirsi comodi, altrimenti non ha senso. Almeno per noi.

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Lucifer

Per quanto riguarda “Lucifer”, perché avete deciso di non usare l’italiano? Perché proprio l’inglese?

M-In tutti i nostri lavori il linguaggio è una questione determinante. Come la forma anche il linguaggio è un segno per questo cerchiamo di ricrearlo o di utilizzarlo in maniera determinante. È inglese quello di “Lucifer”, ma non britannico. È un inglese riformato, un americano piuttosto volgare con dei neologismi e delle parole che ritornano; spesso le persone dicono ancora “chickenshit”. Ha una lingua scenica legata alla dimensione musicale. È una lingua anche in un certo senso ritmica come la trap ed il rap. È una lingua che è nata come americana ma è stata aumentata dal performer e da noi.

Ultima domanda, come vedete il futuro? Che progetti avete? Avete già qualcosa a cui state lavorando?

E- Possiamo parlare diLullaby, il prossimo anno debutteremo con uno spettacolo tratto da un nostro testo scritto un paio di anni fa. Ne avevamo fatto una lettura scenica qui a Short Theatre con dei giovani attori che indossavano delle maschere perché il testo era stato scritto per quattro over 70. Proseguiremo la ricerca iniziata con “Dunno”. Il resto non lo diciamo.

M- No, non lo diciamo. (ridono)

 

Intervista di

Simona Ciavolella

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