Privacy Policy Da Rina a Sibilla: l’arte di scoprirsi attraverso la scrittura - The Serendipity Periodical
Da Rina a Sibilla: l’arte di scoprirsi attraverso la scrittura

Da Rina a Sibilla: l’arte di scoprirsi attraverso la scrittura

Nel romanzo “Una donna”, Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo, racconta una storia terribile, la sua. Siamo agli inizi del ‘900, in una famiglia medio borghese. Rina venera il padre, il dio del suo piccolo mondo, ma non riesce ad amare la madre, non riesce a vedere come madre quella donna remissiva, docile e romantica. La madre non ha nulla della “balda energia del padre”, non sembra una “vera” mamma. Per tutta la gioventù continuerà a chiedersi cosa abbia fatto di male quella creatura buona, quella figura eterea, inconsistente rispetto all’energico marito, per non meritarsi l’amore e il riconoscimento dei figli. Solo anni dopo, lentamente, Rina capirà cos’era quell’ombra indefinibile nel suo sguardo triste…

Sibilla Aleramo

La spensieratezza dell’adolescenza tra oscuri presagi

Quando Rina ha 12 anni, il padre, inseguendo la sete di successo e d’ indipendenza, progetta il trasferimento in un paesino del Meridione dove dirige una fabbrica in cui la primogenita è impiegata. Rina è completamente assorbita dal suo lavoro, è tutta la sua vita; con passione porta a compimento le mansioni dell’azienda di suo padre, e intanto trascura la lenta decadenza della madre, dovuta apparentemente al fatto che non riesce ad adattarsi al nuovo ambiente.

“Mia madre! Come, come ero così incurante al suo riguardo? Quasi ella era scomparsa dalla mia vita. Io non riesco a determinare nella mia memoria le fasi della lentissima decadenza avvenuta nella sua persona dal nostro arrivo in paese (…) La sentivo, ancor più che a Milano, troppo diversa di gusti e di temperamento da me”

L’adolescenza della protagonista continua a scorrere incurante, tra impegni lavorativi e inebrianti nuotate estive, ma gradualmente un presentimento si instilla nella sua coscienza. Le lacrime di sua madre in seguito ad un litigio coniugale smuovono qualcosa in Rina, ella realizza che sua madre è una malata che non vuole farsi curare, che non vuol riconoscere il suo male e si rende conto di essere offuscata, nei suoi giudizi, dall’ammirazione verso la figura paterna. Quando la madre tenta il suicidio gettandosi dal balcone della stanza da letto, Rina per la prima volta comincia a scavare nel passato della sua famiglia e a capire le frustrazioni di una donna, non più amata, costretta a rinnegare tutta se stessa, ogni giorno, senza poter sperare in alcun cambiamento.

Il matrimonio e la fine delle illusioni

Nel frattempo Rina cresce e diventa bella. Nonostante la tristezza pervada la sua casa, i quindici anni e la libertà di cui gode le danno una gioia indistinta. L’età spensierata però non dura a lungo: Rina sarà avvicinata da un collega sul posto di lavoro, un uomo più grande che approfitta della sua ingenuità fino ad abusare di lei, per poi sposarla con un matrimonio riparatore. Rina si ritrova sposata e infelice senza sapere di esserlo, era quello dunque l’amore? La terribile iniziazione ai misteri dell’amore, le fa inizialmente credere che esso sia una forza brutale, misteriosa e straziante, e si convince di essere votata, come tutte le donne, alla via della rassegnazione.

“Appartenevo ad un uomo, dunque? Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. Ho di essi una rimembranza vaga e cupa. (…) Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita”

L’indagine e la scoperta dell’arcano

Il processo che porta la protagonista a svelarsi le cause del suo dolore è lenta e graduale, non ha il carattere dell’intuizione, ma piuttosto di un’accurata indagine introspettiva a ritroso nel tempo sino alla causa originaria, individuata nella figura della madre, che diviene l’archetipo di tutte le madri e simbolo di un’immolazione alla causa della conservazione della specie che si perpetua nei secoli. Questo pensiero cresce dentro di lei proprio quando si appresta a diventare madre, ed è pronta a riversare su suo figlio tutto l’amore che immagina di aver ricevuto dalla sua nell’infanzia. Proprio questo senso di colpa per non aver amato chi le ha dato la vita, instilla nella donna il senso di un peccato originale da espiare con la negazione di se stessa, generando la “mostruosa catena” che lega tutte le donne di madre in figlia.

“Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa in noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. E’ una mostruosa catena. (…) Se una buona volta la catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità?”

Il momento d’analisi tramite la scrittura

Possiamo individuare un preciso passo nel romanzo che determina una svolta decisiva, preannunciata dalla frase “io mi trovai colla penna sospesa in cima alla prima pagina quaderno”. Le sofferenze per la protagonista non sono affatto finite, l’isolamento morale rispetto all’angusto e arretrato mondo che la circonda è assoluto e dovrà ancora combattere molto per trovare la sua strada. Tuttavia per Rina si rivelerà definitivamente liberatoria la scelta di spezzare l’orribile catena, di non proseguire l’inevitabile sconfitta, facendo diventare fecondo quel dolore. In lei nasce infatti l’idea di portare avanti un’opera di umanità, un libro “d’amore e di dolore” che sente necessario, come momento d’analisi, per se stessa e per tutte le donne; un libro per “far palpitare di rimorso e di desiderio l’anima dell’uomo”.

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