Privacy Policy Minutaggio #1 - The Serendipity Periodical
minutaggio

Minutaggio #1

Questo racconto è stato pubblicato su Argo ed è apparso precedentemente nella rubrica L’Officina del Racconto.

 

3′

 

Tesoro ti prego non cominciare adesso. Non cominciare un’altra volta le dico, ma la porta del bagno attutisce i rumori, e chissà che sta facendo dall’altra parte, perché il silenzio è davvero inquietante, capito tesoro?, trovo il silenzio inquietante, le dici ma non serve a niente perché la porta non si apre e siete fermi a quella situazione, a quello stesso stallo delle scorse volte quando ti ubriacavi e lei era lì pronta a coglierti in fallo perché quello era diventato il matrimonio. Finché morte non vi separi, finché uno non uccide l’altro, piuttosto, pensavi incazzato quando succedeva. E succedeva. Ormai succedeva sistematicamente, ma prima non era così, ti dici, dove ho sbagliato. Non lo sai, non c’è una risposta. C’era un tempo in cui scopavate come conigli e guardavate la televisione e parlavate di tutto per ore, e adesso c’è d’improvviso il tempo in cui ogni piccola, insignificante manchevolezza dell’altra o dell’altro è un motivo per fregarlo, farglielo notare, e allora vaffanculo, subentra la rinuncia e allora tutto è lecito, ed è quasi un piacere morboso farla arrabbiare, e distruggere tutto, perché non lo sai, però è così, dillo che lo fai apposta, stronzo bastardo seduto sul cesso con quei pantaloni da uomo d’affari e quella cravatta allentata, cosa sei un broker di wall street cocainomane, magari cazzo. Magari.

 

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Quello che puoi fare ora è provare a uscire e scusarti e cercare di cavartela così, anche se questa volta, dopo quello che è successo, non è che puoi proprio sperare di non aver tracciato un segno indelebile che resterà – resterà, capito?, provi a dire, non c’è risposta. Questa cosa resterà, ma noi diventeremo più forti. Il silenzio ti uccide, perché non parla? Perché non gioisce nel mostrare che il fallimento della sua vita è colpa tua, solo tua, e che quindi lei può indossare il comodo abito della vittima quando a pranzo da sua sorella in Toscana lei le prende la mano e le dice, sei stata sfortunata, sei una brava donna. Una brava donna nonostante tutto – come fosse poi colpa mia se ha fallito con l’università, ti dici – ma è una cattiveria, come puoi pensarlo? Te la ricordi la prima cattiveria che hai pensato su di lei? O è davvero così connaturata al vostro rapporto che fin da subito evitavi di dirle che avevano chiamato per cercarla al telefono, pensavi, così impara a non stare a casa, a non curarsi dei suoi affari, visto che usciva sempre – questo è innegabile, non si può dire il contrario, ma potevi parlargliene – e allora ecco che ti viene quell’assillante, fastidioso dubbio che viene alle persone in crisi chiuse in bagno che si chiedono come sono arrivate a questo punto dopo tutta quella gioia – un dubbio che il silenzio ti obbliga a sentir risuonare nelle viscere.

 

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Esci sempre, le dicevi, e lei rispondeva e quindi. Ed era talmente bella, dopo una giornata di lavoro – lavoro sodo, sai?, per permetterci tutto questo – e lei rispondeva: anch’io che ti credi – che volevi solo sbatterla e poi non parlarci più, e invece le hai detto che esce sempre, lei ha detto e quindi, ha stappato una birra, una sola per sé stessa, e ti sta ignorando. E allora non ci vedevi più e qualcosa scattava dentro di te, ma era la rabbia per quel fizz della birra, e il resto era solo malinconia, per cui ti lasciavi andare sul divano, perché quell’e quindi preparava alla tua risposta e la tua risposta era che pensavi che ti tradisse e quindi accendevi la televisione. Accendevi la televisione e guardavi uno di quegli orrendi quiz per novantenni che danno all’ora di cena in cui bisogna indovinare qualche parola e cercavi davvero di impegnarti a capire cos’hanno in comune una guglia una guardia svizzera e una lada perché così il cervello poteva innocuamente giacere. È questo che voglio, perché non lo capisci. Lo pensavi ma non lo dicevi, non è che si può sempre dire tutto, tipo che in realtà sai che avrebbe ragione a tradirti perché non vali un cazzo e non sai cos’è una guglia.

 

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Esci sempre era quasi peggio che quell’altra cosa che le hai chiesto quando siete tornati dal viaggio, e tu hai tenuto il broncio perché lei ha fatto la civetta col bagnino fighetto ventenne – ma è solo per avere l’ombrellone in prima fila, non fare il musone. Quell’altra cosa, ovvero, che intendeva tua sorella. La stronza della sorella, una donna bellissima, uguale a lei in tutto e per tutto – la gente ci prendeva per gemelle, ti ricordi quella pubblicità che facemmo? – ma ha sposato un riccone che la fa vivere in Toscana, ecco la differenza, la differenza è che tuo cognato ha i peli del petto grigi in vista e con gli occhiali Ray-Ban e un panama da mafioso ti offre un sigaro e ti dice che è un cubano. È un cubano, capito, un sigaro pregiato, gustatelo. La vita è bella, dice, ma non è vero, vorresti rispondere, la vita è bella perché tu hai belle cose, perché sei un figlio di puttana che fa insider trading e io sono un figlio di puttana che lavora alle poste, e questo evidentemente non è abbastanza per quella stronza, e quindi si scopa qualcuno di alto e moro. Non ci pensi però e ti fumi il sigaro, e poi gli chiedi se per caso da loro hanno un posto per uno che di finanza insomma, non è che ne sa moltissimo, però capito, potrebbe imparare in fretta, no? Niente, dice lei, non intendeva niente.

 

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La sorella in particolare è qualcosa che ti fa incazzare a bestia, con quel suo sguardo di compatimento misto a invidia sul quel bar della riviera mentre il cameriere porta gli spritz, alla sorella, la povera sorella che non indossa un vestito di Versace che fa vedere il color lilla delle mutandine di pizzo – sgualdrina, ecco il tuo vero lavoro – e che si traduce in un labbruccio corrucciato, povera sorella mia che non hai avuto la brillantezza mentale di sposarti un riccone anche se sei arrivata quinta a miss Italia da ragazza – dovresti vedere le foto. E le dicevi che intendeva la sorella, e lei rispondeva, ma che vuoi che intendesse. Minimizzava, diceva, non capisco che mi stai chiedendo, è mia sorella, è ovvio che è preoccupata.

Tu: preoccupata?

Lei: beh per la situazione economica sai…

Tu: tua sorella parla con Draghi che si preoccupa della situazione economica?

Lei: dai, hai capito, la nostra.

Tu: la nostra, non ha motivo di preoccuparsi per la nostra, mi pare che stiamo bene.

Lei: non dico questo.

Tu: stiamo bene, no?

Lei: sono stanca.

Tu: ti ho chiesto se stiamo bene. Stiamo bene?

Lei: sì, stiamo bene, che pesante che sei. Stiamo bene, non dico questo…

 

3′

 

Non dice questo, che cosa dice? Niente dici, prendi e te ne esci, pensi, ma non lo dici, anche se dovresti, tu non dici nulla, lei non dice nulla, si beve quella birra con estrema lentezza e poi mette i piedi sul tavolo e vorresti farle qualcosa, e adesso si lecca anche le labbra. Si era leccata le labbra per provocazione, ecco perché, pensi, è senz’altro così, è tutto preparato, tutto quello che è successo è colpa sua. Ha messo in vista quelle belle gambe atletiche di quel bel corpo atletico e ha aspettato che crollassi, perché era ovvio che saresti crollato, e ormai sei fottuto amico mio, ed è inutile che te ne stai in quel bagnetto con le mani nei capelli a pensare a come risolvere l’irrisolvibile, il mondo è pieno di gente come te e non risolve mai un cazzo quella gente.

 

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Scusami, ti viene da dire, ti viene da scusarti per qualche motivo, anche se sai che non risponderà, che oltre quella porta non verrà emessa alcuna risposta, e che tanto non servirebbe a nulla. Scusami per tutto quanto, ho sbagliato io, avresti voluto dirle, poi magari fare l’amore – dopo tutto cosa vi manca, avete una bella casa, un po’ di belle cose le avete, potete sperare solo di migliorare, no? Possiamo migliorare ma andiamo bene tutto sommato amore, non ti pare, questa casetta è tutta nostra, non è grande ma possiamo fare un viaggetto quest’estate, le vorresti aver detto, e che bello sarebbe stato, tutto così facile, senza bisogno di complicazioni morbose, guardare quella che era la ragazza bionda più fica del liceo che si metteva le gonne lunghe che tu le alzavi nel bagno – te lo ricordi? E invece lei aveva alzato i piedi sopra al tavolo lasciando che il vestitino scivolasse indietro, come se potessi scordarti quant’era fica. Togli i piedi da lì per favore.

 

3′

 

No che non potevi scordarti quant’era fica, e lei non poteva fare a meno di ricordartelo, e anche se se ne stava lì, se ne stava semplicemente lì con le gambe all’aria e la fica che si intravedeva appena, abbassa i piedi ho detto. Lei era lì, era fica, tu cos’eri? Niente, nessun talento, un perfetto uomo comune che vivrà e morirà senza ottenere un cazzo di nulla, potresti almeno fare insider trading stronzo, cos’è, non hai le palle, eh? Mi fai veramente incazzare avevi detto, e ti eri accorto che iniziavi a sudare e se n’era accorta quella stronza fica che diceva lo so. Diceva lo so, capito? Non gliene fregava un cazzo, voleva solo ribadire che lei era fica, e tu potevi anche incazzarti, e infatti ti sei incazzato e adesso sei lì, chiuso in bagno, ad aspettare chissà cosa e chissà come, a metterti le mani in testa come se questo potesse cambiare quello che hai fatto, come se questo potesse cambiare qualunque cosa, tipo che davvero non sei mai stato nessuno e non puoi farci nulla, quindi piangi, ma in realtà ce l’hai solo con te stesso.

 

Racconto di 

Michelangelo Franchini

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