Privacy Policy L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini - The Serendipity Periodical

L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini

L’anno che a Roma fu due volte Natale, il surreale in un romanzo sulla perdita

Il nuovo romanzo di Roberto Venturini è rientrato meritevolmente nella dozzina del premio Strega. L’opera di Venturini è divisa in due atti più un finale conclusivo, come se fosse una vera e propria sceneggiatura. Il tema centrale di “L’anno che a Roma fu Natale due volte” è la perdita: un’assenza provocata da un lutto che lascia un vuoto che i vivi, che rimangono sulla terra come creature monche, non riescono a colmare. Che poi chi ci insegna fronteggiare una perdita?

L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini
L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini

Esiste nel tuo romanzo uno spazio surreale che potremmo definire anche utopico?

Nel romanzo è molto forte la componente di marginalità. I mei protagonisti sono in maniera romantica gli ultimi. E questo fatto dello strato di neve che ingentilisce il degrado di una porzione del litorale romano, che ha vissuto certamente momenti migliori, è un’immagine che piaceva riprodurre. Poggiare questo velo di neve che è una cosa inusuale per Roma in generale, per il litorale in particolare, significa anche stendere un velo pietoso sulle macerie, che un tempo erano la gloria di quel territorio.

Come definiresti i personaggi del tuo romanzo?

Di fondo tutti questi personaggi sono dei nostalgici con accezioni e declinazioni diverse. Per forza di cose cosa fa un nostalgico? va a recuperare nel passato, che per me che appartengo alla generazione di quelli nati negli anni “80, è un immaginario fatto di linguaggio delle merci di spot televisivi, di cinema alto e basso, di musica. E tutto questo cosa diventa per un nostalgico? Diventa un paradigma dell’immaginario emotivo. Per cui citare uno specifico attore o icona pop diventa un frame emotivo, perché tocca delle corde emotive e attinge ad un linguaggio condiviso. È quell’esperanto plurigenerazionale al quale tutti noi abbiamo legato delle emozioni.

L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini
Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Franca Bettoja e Luciano Salce torneo di tennis al Villaggio Tognazzi-Torvajanica 1968 credits Marcello Geppetti

Marcolino e Francesca. Due amanti che rifiutano la parola e accettano la «mortificazione della propria fisicità». Volevi descrivere l’incomunicabilità della nostra generazione?

Il personaggio di Francesca a livello narratologico è importante perché mi serviva a posizionare Marco, un personaggio che si trova in quella condizione particolare che spesso accade a seguito della perdita di una persona cara. Marco sviluppa questo senso di protezione verso la madre e avviene un ribaltamento totale del ruolo genitoriale, diviene a tutti gli effetti il padre di sua madre. Il ruolo di Francesca mi serviva perché è utile a far agire Marco. Quando a lui viene meno anche questa sorta di sfogo con Francesca, questa piccola consolazione, allora a livello narratologico è pronto a compiere quello che deve fare. Per quanto riguarda il loro rapporto è la logica conseguenza che Marco è un giovane uomo ormai votato ad una sorta di sacrificio. Lui sacrifica la sua vita per prendersi cura della madre e quindi quello che può dare in un rapporto ad un’altra persona è questo: una briciola, uno scarto.

Non è un romanzo in prima persona, è forse più un romanzo polifonico. Dove si nasconde l’autore in mezzo a tutte queste voci? Nella voce del narratore onnisciente?

Io non credo nel narratore onnisciente che non giudica e non influenza il lettore. Già di per sé l’atto della scrittura è un atto militante e raccontare gli ultimi è un atto politico. Il narratore è sempre presente nel testo, indica sempre la strada ma poi ad un certo punto è come se i personaggi ti chiedessero una certa autonomia e fagocitano la voce narrante

L’anno che a Roma fu due volte Natale-Intervista a Roberto Venturini
Roberto Venturini – Autore del Romanzo l’anno che a Roma fu due volte Natale – Credits www.cultura.ilfilo.net

La cosa che più mi ha colpita del romanzo è il linguaggio costruito ad arte, soprattutto nei dialoghi. È pieno di regionalismi, sarebbe difficilissimo da tradurre

Mi sono posto il problema della traducibilità del romanzo, però avendo a che fare con il romano, che è un idioma mi sono preso la libertà di usarlo così diffusamente perché alla fine resta comprensibile. E poi il romano è un po’ la lingua universale del cinema italiano. La sua caratteristica principale è la struttura della frase che lo rende particolare. Per esempio con il napoletano, che è una lingua a sé, ha senso centellinare il regionalismo perché la comprensione del romanzo stesso potrebbe essere compromessa.

Qual è invece il rapporto fra la protagonista e gli oggetti che accumula?

Il tema vero del romanzo è la perdita, nel caso di Alfreda la perdita dell’oggetto amato, un tecnicismo orribile. Non avendo più ritrovato il corpo del marito non ha neppure la magra consolazione di compiangerne la salma o di avere un luogo fisico nel quale conservare memoria del marito. Quando c’è una perdita, se non avviene l’accettazione di questa perdita, allora il vuoto diventa invasivo e condizionante. Nel caso di Alfreda il vuoto declina in un disturbo ossessivo compulsivo. Riempie quel vuoto con oggetti della vita passata, che sono brandelli di una vita agiata e felice. Nella visione romantica della voce narrante quella casa, un tempo il set di una vita felice e rassicurante, è diventata una gabbia per amanti, ma pur sempre una gabbia. Alfreda è di fatto imprigionata e questi oggetti sono il risultato della sua accumulazione a fronte della perdita. È un disturbo dell’umore, uno spettro che aleggia su tutti quanti.

In che ambito ti sei formato principalmente?

Prima di arrivare al romanzo ho scritto sceneggiature, quindi scrivevo principalmente per l’audiovisivo. Difatti nel primo romanzo c’è stato proprio un percorso transmediale. Tutte le ragazze nasce come racconto breve poi è diventata una serie per il web e in seguito un romanzo. È ritornato così alla sua dimensione originaria ossia la narrativa. Gli anni che ho trascorso a scrivere per il web è comunque un esercizio di scrittura che mi ha condizionato. Come se fosse uno zainetto di conoscenze che mi sono portato dietro anche nella redazione di quest’ultimo romanzo.

Hai mai dovuto combattere con gli editori per questi titoli lunghissimi? Il tuo esordio è una frase lunghissima Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera

No, in realtà non mi è mai successo perché anche i titoli rientrano in maniera prepotente nel citazionismo. In questo caso era un chiaro riferimento ai titoli dei film di Lina Wertmüller. Nel caso del romanzo attuale in principio il titolo era Salme, quindi un’unica parola. Però contestualmente a quello che stava accadendo, a causa della pandemia, in prossimità dell’uscita abbiamo ragionato con la casa editrice e ci sembrava un po’ di cattivo gusto. La scelta è caduta poi su un estratto del romanzo, perché con questo titolo si entra a gamba tesa nel mood del romanzo, nel quale una componente forte è quella del surrealismo.

Qual è la tradizione letteraria che senti più vicina al tuo romanzo? E qual è la genesi di questo romanzo?

Sicuramente oltre al surrealismo, un mio punto di riferimento è la tradizione letteraria che si rifà al neorealismo fenomenico. Ma evidentemente quando si tratta il tema della marginalità, delle periferie, non si può prescindere dai grandi maestri che hanno narrato quelle realtà. Cito uno su tutti Pasolini che ha rappresentato una guida per il racconto degli ultimi.

Amore Tossico di Claudio Caligari 1983. Nel romanzo di Venturini viene ripreso e rielaborato il personaggio de Er Donna

Per quanto riguarda la genesi in un periodo della mia vita un fatto di cronaca, il ratto della salma di Mike Buongiorno, mi ha ossessionato perché apparentemente non c’erano ragioni valide per quel furto. Tanto che nessuno chiese un riscatto. Alla fine mi sono convinto che dietro questo gesto ci dovevano essere delle motivazioni profondamente simboliche, una sorta di declinazione di mitomania. Impossessarsi di un simbolo nazionalpopolare. Questo è il nodo narrativo fondamentale nel romanzo attorno al quale ho costruito una narrazione focalizzata su un nucleo famigliare. E poi per una curiosa congiuntura astrale ho trovato anche l’arena giusta nella quale ambientare l’azione, Torvaianica. Un luogo che ha una storia tanto bizzarra quanto le cose che racconto.

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