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Specchiarsi- oltre sé stessi

Specchiarsi- Oltre sé stessi

Prigionieri di un’immagine: il senso dello specchiarsi

Cosa succede quando ci guardiamo allo specchio? Per una volta riusciamo a scorgere la nostra immagine dal di fuori, a vedere la nostra faccia, i nostri occhi, la nostra espressione e a guardare noi stessi dal punto di vista dell’altro. Questo riflesso a volte ci spaventa, ci fa sentire inadeguati; a volte invece rimaniamo incantati di fronte alla nostra immagine e la contempliamo quasi come se ci sentissimo estranei ad essa. Dubbi, incertezze e aspirazioni spesso si solidificano in quest’esperienza, così che in una sola immagine si stagnano i desideri di una vita. Ludwig Wittgenstein scriveva “siamo sempre prigionieri di un’immagine”, il problema della filosofia è quello della prima mossa (£308 delle Ricerche Filosofiche): inaugurare una nuova prospettiva, vedere le cose diversamente, che è la cosa più difficile da fare perché siamo sempre entro una data visione. Una volta fatto però, a dissolversi non sarà un problema ma una ramificazione di problemi.  Nel nostro discorso, andare oltre se stessi per poter incontrare se stessi.

Prendersi cura di sé

Nel 1981-1982 Michel Foucault tiene il corso “L’ermeneutica del soggetto” al Collège de France. Qui si propone di analizzare il rapporto tra soggetto e verità. A tal proposito chiama in causa Socrate, che si fa portavoce del precetto “prenditi cura di te stesso”. Foucault declina la questione della cura di sé innanzitutto nei termini di un atteggiamento verso di , verso gli altri, verso il mondo. Un certo modo di considerare le cose, di essere nel mondo, di realizzare determinate azioni, di intrattenere delle relazioni con gli altri. Curarsi di se stessi implica dunque che si converta il proprio sguardo distogliendolo dal mondo esterno. Per poter rimanere da soli con se stessi e meditare su ciò che si pensa.

Illustrazione di Chiara Fantin (chiaramente illustration)

La cura designa dunque un certo numero di azioni, quelle azioni esercitate da sé su di sé attraverso le quali ci si modifica, ci si purifica, ci si trasforma e ci si trasfigura. La solitudine, le rinunce, le modificazioni dello sguardo, sono il prezzo che il soggetto deve pagare per avere accesso alla verità. Se non siamo disposti a mettere in gioco interamente noi stessi la verità non ci salva. Non può esserci verità senza una conversione o una trasformazione del soggetto. Foucault non sta parlando di una verità astratta, ma del significato pregnante che muove le nostre vite, direziona le nostre azioni e ci rende soggetti unici. Perciò, qual è la tua verità? 

Una solitudine necessaria

Anche Hannah Arendt si dedica alla propria interpretazione di Socrate, questa volta soffermandosi sul motto delfico “conosci te stesso” : soltanto se conosco quel che appare a me e solo a me posso comprendere la verità. Non esiste una verità assoluta, uguale per tutti, slegata dal vivere di ciascuno, ma ci sono tante verità quanti sono gli esseri umani, strettamente legate all’esistenza concreta di ognuno. Spesso abbiamo paura di contraddirci, di dire una cosa e smentirla subito dopo, in realtà la paura della contraddizione è paura della scissione, del non poter restare uno. Nel pensiero ognuno di noi, “essendo uno”, può parlare con se stesso come se fosse due. Questo testimonia l’impossibilità reale per gli umani di non contraddirsi, la pluralità che è intrinseca nel sé.

Specchiarsi nel dialogo

Questo dialogo tra me e me (specchiarsi, appunto) costituisce la prima esperienza di pluralità e contraddizione. Per questo la Arendt ci parla della solitudine non come una forma di esclusione dal mondo, ma come l’unica premessa possibile all’entrata del mondo comune. Solo chi sa vivere con se stesso è capace di vivere con gli altri. In questo dialogo della solitudine in realtà non si è mai da soli, non si è mai del tutto separati da quella pluralità che è il mondo umano. Infatti per la Arendt gli esseri umani non soltanto esistono al plurale, ma portano sempre con sé un indizio di questa pluralità.

“Il sé che mi accompagna quando sono da sola non può mai assumere quell’aspetto unico e definito, quella distinzione che hanno per me le altre persone; questo sé rimane sempre mutevole e piuttosto ambiguo. Ed è proprio in forma di mutevolezza e ambiguità che il sé mi rappresenta tutti gli esseri umani, l’umanità di tutti loro, mentre sono da sola presso me stessa”. 

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